Giulio Bisegni, fare il capitano delle Zebre è un lavoro da ingegnere

1302

di Gianluca Prudenti

Giulio Bisegni è il capitano delle Zebre. Dopo Aver mosso i primi passi nel mondo del rugby a Frascati, città in cui è nato 29 anni fa, è passato alla Lazio per poi trasferirsi alle Zebre, diventando un pilastro della squadra. Ora sta approfittando dello stop dovuto a un infortunio per programmare il proprio futuro, tra sport e università… Ecco cosa ha raccontato a unminutoprima.com


 

Giulio, prima di tutto come stai?

Sto abbasanza bene sto recuperando, abbiamo deciso di non forzare, posso recuperare con calma, quindi la stagione è praticamente finita. Ne sto approfittando per sistemare anche qualche acciacco pregresso. In un placcaggio ho preso una ginocchiata sul tendine pettorale che si è completamente staccato. Mi sono dovuto affidare Carlo de Biasi che mi ha operato e fortunatamente è andato tutto bene!

Come nasce la tua passione per il rugby?

Io in realtà avevo un padre cestista, mentre mio fratello ha seguito la tradizione rugbisti a che è molto forte a Frascati, la mia città. Ho cominciato a 6 anni e poi sono andato alla Lazio prima di passare alle Zebre

È stata un’annata particolare per via del COVID… ci fai un bilancio della tua stagione?

È stata una stagione molto particolare con percorsi diversi rispetto al solito. Con il COVID è stato difficile gestirai perché di fatto si è navigato a vista. In generale è stata una buona stagione e abbiamo disputato buone partite. Io in particolare ho deciso di lasciare la nazionale per avere più tempo e poi l’infortunio mi ha dato l’opportunità di rimettermi in sesto dopo 7 anni in cui ho giocato sempre e con continuità senza mai fermarmi.

Che emozione si prova a giocare in campo internazionale sia con le zebre che con la nazionale?

Io sono un giocatore molto romantico per me è sempre grande emozione, gioco con trasporto assoluto e la voglia di dare battaglia. Sempre partendo dal presupposto che non mi sento migliore a nessuno, voglio sempre scendere in campo e spesso ci riesco. Cerco sempre di dare forza ai compagni. Le zebre mi gasano , io sono già molto carico di mio figurati… cerco di trasmettere la mia energia!

Hai deciso di lasciare l’azzurro per dedicarti a club, famiglia e università… ci spieghi?

La mia carriera in azzurro non è stata così incisiva e quindi mi sono chiesto fino a che punto valeva tenere un piede in due scarpe. Giocavo poco per avere le pause dedicate alle nazionali, tornavo nel club e giocavo sempre: ero sopra i 2000 minuti di gioco effettivo, mi sentivo un po’ spremuto. Mi sono dato delle priorità, la Nazionale è stato un sogno ma non sono riuscito a impormi come avrei voluto. Ho deciso di intraprendere un percorso parallelo: ero iscritto a ingegneria energetica e sono passato a gestionale. Sono felice della scelta. Mi mancano 5 esami e la tesi e poi vorrei cercare di fare un tirocinio con aziende del territorio, magari sponsor della squadra. Cerco di sfruttare quello che di buon può arrivare dal rugby.

E quindi cosa vuoi fare da grande?

Da grande non so, la verità è che non siamo abituati a pensare al post carriera. Arriverà il momento di smettere e noi non siamo troppo tutelati, giochiamo e poi tutto finisce improvvisamente. Mi piacerebbe intraprendere un percorso manageriale, l’ho capito facendo anche il capitano alle Zebre. Mi piace stare dentro un gruppo e relazionarmi con gli altri, mi vedo in quelle vesti anche magari in una azienda.

Cosa provi un minuto prima di scendere in campo?

È un momento di energia e adrenalina pura: parlo ai ragazzi e cerco di essere lucido toccando i tasti giusti per ciascun compagno. A livello comunicativo devi saper prendere i tuoi compagni per farli rendere al meglio. Io vivo le partite di pancia ma cerco di essere lucido sui dettami tecnici tattico. Nello stesso tempo però trasmetto la mia adrenalina ai ragazzi.

Durante la partita?

Durante la partita sono abbastanza celebrare. Prima è passione pura, poi quando entro in campo provo a trasmettere tranquillità e a comunicare con i miei compagni per spingerli a dare qualcosa in più. Alla fine quella è la parte più complicata.

È un minuto dopo?

Dipende da come è andata, cerco di rimanere centrato: se vinciamo non mi dilungo troppo in complimenti ed entusiasmo, rimango concentrato sul miglioramento, e lo stesso se perdiamo senza svalutare troppo o prestazione e sottolineare gli errori .

Qual è la partita più importante che hai giocato nella tua carriera?

Sicuramente l’esordio con la nazionale è stata la realizzazione di un sogno: era Inghilterra italia, 14 febbraio 2015. Con le Zebre invece ricordo una partita a Connacht contro gli irlandesi: prestazione mostruosa e abbiamo vinto scrivendo una piccola pagina di storia del rugby italiano.

Come mai secondo te c’è tutta questa differenza col calcio?

Ci sono interessi economici diversi e il rugby è percepito in modo particolare.
Secondo me dipende dal fatto che noi abbiamo avuto meno spazio a livello comunicativo, un giocatore di rugby non è visto come un atleta a tutti gli effetti. Invece il nostro sport è molto più completo rispetto ad altri. Invece sì parla di terzo tempo, di amicizia e di giocatori grossi… È una percezione che va cambiata a livello di comunicazione a partire dalle scuole. Sarebbe bello che i settori giovanili scolastici potessero veicolare questo sport. Le cose stanno cambiando, vedremo i risultati tra 15 anni.

Come sta il movimentò italiano?

Credo che ci sia stata una piccola presa di coscienza de fatto che la mia generazione ad esempio si sia mossa in ritardo. In Italia siamo professionisti dal 2000 con il 6 nazioni. Molte squadre straniere sono arrivate prima a questo risultato ed ora è difficile colmare il gap nel breve periodo. Già le Under 16/17 cominciano a portare a casa risultati importanti in campo internazionale. E poi ci vorrebbe un campionato cadetto o una Under 23, il passaggio tra i team di eccellenza e le franchigie maggiori spesso è troppo difficoltoso, ci vorrebbe un passaggio intermedio.